Stefano Carnicelli

SCRITTORE

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Ventre di ferro

Sono Ani e amo gli aquiloni perché sono liberi e leggeri. Ho 14 anni e frequento la 4ª classe di un liceo. Vivo in un villaggio ad Abidjan, in Costa D’Avorio. La mia famiglia è povera come buona parte del mio paese. A stento i miei genitori riescono a mandare a scuola me e i miei fratelli. Per loro “Studiare” è la cosa più importante in un paese povero come il nostro. Forse riusciremo ad avere un futuro migliore.

Sto imparando tante cose. Amo la geografia, mi permette di scoprire il mondo, anche se non mi sono mai allontanato dal mio villaggio. Viaggiare è un lusso che non appartiene ai poveri. Non poter viaggiare è come non essere liberi; allora uso la fantasia. È così che ho conosciuto città e luoghi lontanissimi. Sono viaggi immaginari che faccio con i libri, l’atlante e le carte geografiche.

Ho un pezzo di legno. È il mio piccolo aereo personale. L’ho trovato nella discarica a cielo aperto della mia città. Ora sembra chiusa ma un tempo ci si poteva andare. In quel luogo proibito ci andavo, di nascosto, con i miei amici. Trasgredire era il battesimo per diventare grandi. L’ho fatto anch’io. Poi ho capito che le discariche della mia città erano fonte di morte per via degli scarichi tossici delle multinazionali. Bambini e adulti morivano di cancro. Le navi attraccavano al porto per depositare i loro carichi di morte. Era un gioco facile in un paese alle prese con la guerra civile. Non c’erano controlli, solo tanta corruzione.

A scuola mi hanno spiegato questa terribile realtà: la vita delle persone di un paese povero e indifeso vale meno del profitto. Per molto tempo hanno depositato tutte queste schifezze mortali. Si chiamano soda caustica, benzene, stronzio, etc.; tutti rifiuti derivanti dalle lavorazioni industriali. Smaltirle costerebbe molto e allora è più semplice e conveniente inquinare e uccidere, a basso costo, il mio paese. Con le piogge si sviluppavano le esalazioni. C’era puzza. Quasi un odore di cipolla ma molto più forte. Prendeva alla gola. La pelle si macchiava; sembravano bruciature di sigarette. Gli occhi lacrimavano. Debolezza, vomito… sono arrivati mali che prima non c’erano. Molti bambini e ragazzi sono morti di cancro; su 100 che si ammalano ne muoiono 80.  

Chiesi alla maestra: “Perché accadono queste cose? Ci uccidono perché abbiamo la pelle nera?”.

“Non è questione di pelle, Ani. La verità è che l’uomo per fare più soldi è disposto a passare sopra la vita delle persone indifese”.

Quel piccolo legno divenne il mio giocattolo. A casa non ci sono giochi. L’ho prima pulito, poi ho creato la punta consumandolo contro un muro ruvido. Sembrava un vero aereo. Lungo i lati ho disegnato i finestrini e poi ho incollato due ali. Mi diverto quando ci gioco. Corro, simulo voli ed io sono lì… tra le nuvole che guardano la terra. Altre volte lo sposto lungo la carta geografica che raffigura il mondo. Anche questa stava nella discarica.

Con la fantasia traccio vie e rotte che percorro con gli occhi smarriti nel vuoto. Per me perdere lo sguardo significa allontanarmi dalla dura realtà. Vado oltre; è un “vedere” nel “non vedere”. Appare Roma, poi Parigi, New York, Londra. Le vedo mentre sfioro le foto che ritraggono il Colosseo, la Tour Eiffel, il ponte di Brooklyn, il Big Ben. Quando mia madre mi trova in questo stato di allegra follia, mi lascia stare. Sta al gioco. Mi accarezza la testa e mi dice: “Sogna, figlio mio!”. Io resto fermo. Continuo a volare. Sorrido e prendo tutto l’amore di mia madre… senza parlare.

Altre volte vado in posti isolati, dove far volare i miei aquiloni. Non ho soldi per comprarli e non posso chiederli ai miei genitori; fanno già tanto per me. I nostri pasti non sono ricchi. Io e i miei fratelli divoriamo subito le nostre porzioni. Abbiamo sempre fame. E così nostra madre, più lenta, ci da parte del suo cibo. Sono sicuro che resta con la fame, ma si toglie il boccone di bocca per darlo a noi. Farebbe qualsiasi cosa pur di farci vivere un futuro migliore e felice. La nostra miseria è dignitosa ma si attacca addosso come una pelle e non ti lascia più.      

I miei aquiloni li costruisco per strada. In mezzo all’immondizia è facile trovare buste di plastica, bastoncini e spaghi. In genere cerco le buste più grandi e robuste. Se sono anche colorate, l’aquilone sarà più allegro. Con le mie piccole mani taglio le buste lungo i lati e ne ricavo un quadrilatero. Poi incastro i bastoncini negli angoli cercando di tendere bene la plastica. Infine lego lo spago nel punto in cui i due bastoncini si incrociano. Lo annodo più volte per averlo più lungo.

In genere cerco giornate ventose. Libero il mio aquilone e inizio una corsa velocissima. Tengo con forza lo spago nella mano mentre si alza in volo. Lo vedo flettersi, impennarsi per poi ricadere leggermente prima di rialzarsi. Corro e mi sento felice. Guardo il cielo azzurro fitto, dimentico ogni cosa. Il volo dell’aquilone libera il mio cuore dalle paure, dalle ansie e mi porta ovunque che non siano i luoghi della mia vita. Mentre corro, rido e grido con tutto il fiato che ho: “VITAAA!”.

Spesso mi chiedo perché tanti ragazzi cercano di fuggire dal mio paese. Ne parlavano a scuola. Fuggono dalla miseria, dalle guerre, dalle malattie; si spostano in massa verso l’Europa. Mediamente quattro persone su dieci vivono sotto la soglia di povertà. Eppure la Costa d’Avorio potrebbe essere un paese ricco. È un produttore di cacao, olio di palma e caffè. È ricco anche di minerali e poi c’è il petrolio. Purtroppo la ricchezza resta ancora nelle mani di poche persone. Per questo motivo il mio paese è considerato fragile; un gigante dai piedi d’argilla.

Conosco dei ragazzi che hanno cercato la via di fuga. Inizia un viaggio infinito attraverso “La via dell’inferno”. Il primo tratto è di circa 1.500 chilometri. Cercano di raggiungere Niamey nel Niger. È un percorso quasi impossibile, con mezzi di fortuna. Per un futuro migliore, usano tutti i risparmi che hanno messo da parte negli anni. Spesso i soldi non sono sufficienti perché, nei punti di confine, i militari corrotti pretendono di essere pagati. Sono costretti a cercare lavori temporanei per trovare altri soldi. Chi non riesce viene rispedito indietro. Chi va avanti inizia il secondo viaggio attraverso il deserto. Sono altri 2.700 chilometri Si arriva a Sabha, in Libia. È il traguardo della via dell’inferno. Molti ragazzi vengono addirittura catturati, torturati e derubati. Solo in pochi riescono a superare tutte le difficoltà. Arrivano sfiniti e disperati sulle coste del mediterraneo. Qui cercano imbarcazioni dirette verso le coste europee. Alcuni trovano la morte in mare. 

Io ho paura della via dell’inferno. Sogno una vita migliore ma non voglio abbandonare la mia famiglia. È vero! Vorrei fuggire da qui. Lo farei, però, solo per il tempo necessario a trovare una sistemazione e un lavoro. In questo modo potrei farli venire da me. Mi piacerebbe vivere a Parigi. Potrei giocare a calcio in una squadra francese. A forza di correre dietro agli aquiloni, sono diventato velocissimo; potrei essere un buon calciatore. Il mio idolo è Serge Aurier. Con i soldi guadagnati giocando a pallone, comprerei alla mia famiglia una casa con un grande giardino. Passerei con loro tutto il mio tempo libero e li porterei allo stadio ogni domenica, riservandogli i migliori posti in tribuna.

Ormai sono mesi che penso a una via di fuga. Nessuno conosce questo mio segreto. Quando sarò a Parigi, la prima cosa da fare sarà rassicurare i miei genitori. Sono certo di una cosa: la mia fuga non sarà attraverso il Niger e la Libia. Sarebbe impossibile. Fuggirò in aereo. Spiccherò un volo come i miei aquiloni. Ho visto che ci sono voli diretti da Abidjan a Parigi. Vado spesso vicino all’aeroporto e resto ore intere a vedere gli aerei che vanno e vengono. È uno spettacolo bellissimo. Nel mio mondo, anche gli aquiloni che costruisco volano come gli aerei.

Il fatidico giorno è arrivato. Sono pronto. Porterò con me solo uno zaino con poche cose. Non posso dare nell’occhio. I miei capirebbero. Ho mentito a fin di bene. Ho detto che questa sera sarò alla festa di un mio amico. Ho studiato ogni dettaglio: orario del decollo, rotta, arrivo a Parigi. Non posso fallire.

Evviva! Ce l’ho fatta. Sono quasi le undici di sera… finalmente in volo. C’è un po’ di rumore ma ho trovato una buona sistemazione. In otto ore sarò a Parigi. E pensare che per attraversare l’Africa fino alle coste del Mediterraneo, si impiegano anche diversi mesi. Sicuramente ho scelto la soluzione migliore. Sento un po’ di freddo. Metterò la felpa che ho nello zaino e cercherò di dormire un po’. Per ripararmi mi metterò in posizione fetale. Domani, a Parigi, avrò molto da fare.

Sono quasi le 7 del mattino del 7 gennaio 2020. Nel vano del carrello dell’aereo, volo Air France AF 703 da Abidjan a Parigi, viene trovato il corpo di un bambino. Addosso non aveva documenti. Solo due giorni dopo avrà un nome: Ani Guibahi Laurent Barthélémy. Era nato il 5 febbraio 2005. Forse Ani non sapeva che a 10.000 metri di quota, oltre ad esserci carenza d’ossigeno, la temperatura scende a meno 50 gradi. Il vano del carrello non è riscaldato, né pressurizzato. Le immagini di sorveglianza mostreranno Ani che corre, al momento del decollo, verso l’aereo. È buio. È agile e veloce. Afferra il carrello di atterraggio e si tira su. Forse era riuscito a entrare in pista scavalcando le recinzioni. Certamente aveva trovato un nascondiglio sicuro fino al momento della partenza.

Si spengono così i sogni di un ragazzo che amava così tanto la vita da sfidare l’impossibile. Un moderno Icaro che, come nei miti dell’antichità, era partito alla scoperta del mondo. Ciò che resta è un piccolo fagotto irrigidito dal gelo all’interno di un ventre di ferro. Nei momenti fatali, ad Ani sono mancati gli abbracci e le carezze che ogni bambino dovrebbe avere. Per ricordarne il coraggio e l’audacia, su un palazzo del Boulevard de la Chapelle, a Parigi, Christian Guémy ha realizzato un murales con il volto luminoso di Ani. L’opera è ricca di colore. Vuole celebrare un sogno… quello di andare “oltre”…

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